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Il Museo dell'Innocenza di Orhan Pamuk

Aggiornamento: 17 ago 2018

Nella vita il problema principale è la felicità. Alcune persone sono felici, altre non riescono a esserlo. La maggior parte della gente, com'è naturale, sta a metà strada. Ero al settimo cielo in quei giorni, ma non volevo rendermene conto. Adesso, dopo tanti anni, penso che questo probabilmente fosse il modo migliore per preservare quella felicità. Però io non mi rendevo conto della mia felicità, non per preservarla, ma per paura dell'incombente infelicità.

Nella Turchia degli anni ’70 Kemal, un rampollo della Istanbul bene, cede alla passione per Fusun, un’affascinante commessa appena diciottenne nonché lontana parente. All’intensità di questo amore, che sfida le regole sociali di una Turchia divisa tra le spinte progressiste occidentalizzanti (liberalizzazione sessuale e dei costumi) e le forze conservatrici che impongono la necessità della verginità femminile antecedente al matrimonio e la consuetudine del capo coperto in luoghi pubblici, si contrappone l’esigenza per Kemal di mantenere le apparenze sulle quali si basa la sua vita in società.


Serberà dunque la relazione sentimentale con Sibel, una moderna ragazza turca che ha studiato a Parigi, rapporto che sfocerà in uno sfarzoso party di fidanzamento all’Hilton; si incontrerà furtivamente con la giovane e spregiudicata Fusun a Palazzo della Pietà, sperimentando le gioie del sesso ma anche le relative pene e tormenti che la passione porta necessariamente con sé; nasconderà la liason con Fusun alla propria famiglia e agli amici pubblicitari e industriali (rigorosamente appartenenti all’élite turca!) fino ad arrivare ad un lento e inesorabile esilio dalla società e dagli ambienti frequentati da sempre, tra cui si annoverano ristoranti lussuosi e locali alla moda sul Bosforo.


La narrazione si apre con quello che il protagonista e voce narrante ricorderà come il momento più intenso della sua vita: durante l’amore con Fusun, un orecchino di lei si sfila dal lobo per cadere sul pavimento. Un atto banale che racchiude un crogiolo di emozioni: la percezione della forza indomita, del carattere e della determinazione dell’amata che sfida le convenzioni sociali per farsi amare in una casa deserta e polverosa, sovraccarica di soprammobili, vasi e suppellettili ormai inservibili; la bellezza intrinseca del corpo femminile e la sua intrinseca fragilità, l’emozione del possesso e insieme la sensazione della perdita imminente. Riporto di seguito l'incipit:


Era l’istante più felice della mia vita, e non me ne rendevo conto. Se l’avessi capito, se allora lo avessi capito, avrei forse potuto preservare quell'attimo e le cose sarebbero andate diversamente? Sì, se avessi intuito che quello era l’istante più felice della mia vita non mi sarei lasciato sfuggire una felicità così grande per nulla al mondo. Quell'istante prezioso che avvolse il mio corpo in un abbraccio profondo e sereno forse durò pochi istanti, è vero, ma la felicità di quel momento parve proseguire per ore, estendersi per anni. Era il 26 maggio 1975, un lunedì, all'incirca le tre meno un quarto: in quell'istante ebbi la sensazione che ci fossimo liberati di tutti gli opprimenti sensi di colpa, dal peccato, dal castigo e dal pentimento, e che il mondo si fosse sottratto alle leggi della gravità e del tempo. Baciai la spalla di Fusun, sudata per il caldo e il sesso, l’abbracciai dolcemente da dietro e penetrai dentro di lei, mordicchiandole l’orecchio sinistro. Per un lungo istante l’orecchino rimase quasi sospeso nell'aria e poi cadde. Quel giorno non notai quale forma avesse. Eravamo così felici che fingemmo di non accorgercene e continuammo a baciarci.

Della potenza evocatrice degli oggetti, seppur da un altro punto di vista e traendone altri esiti, ne parla meglio (dove con meglio intendo in modo più approfondito e descrittivo) Paul Auster in “L’invenzione della solitudine”, un quarto di secolo prima:


Ho imparato che niente è più terribile che trovarsi faccia a faccia con gli oggetti di un morto. Di per sé le cose sono amorfe: assumono significato solo in funzione della vita che ne fa uso. Quando essa giunge al termine, le cose cambiano anche restando uguali. Ci sono e non ci sono, come spettri tangibili, condannati a sopravvivere in un mondo dove non hanno più posto. Che ne sarà, ad esempio, di un armadio pieno di vestiti in silenziosa attesa di essere indossati da un uomo che non aprirà l'anta mai più? o delle scatole di preservativi sparse nei cassetti rigurgitanti biancheria e calzini? o del rasoio elettrico abbandonato in bagno, ancora zeppo della barba polverizzata dell'ultima rasatura? o del manipolo di flaconi vuoti di tintura di capelli, nascosti nella borsa di pelle da viaggio?.. Rivelarsi improvviso di cose che nessuno vuole vedere, che nessuno desidera conoscere. In tutto questo c'è violenza, e anche una sorta di orrore. In sé le cose non significano nulla, come gli utensili da cucina di una civiltà scomparsa; e tuttavia ci dicono qualcosa, imponendosi non in quanto oggetti, ma come avanzi del pensiero, della coscienza, emblemi di una solitudine ove l'uomo giunge a prendere le decisioni personali; se tingersi i capelli oppure no, se indossare l'una o l'altra camicia, se vivere o morire. E la futilità di tutto questo quando arriva la morte.

Un fiume di parole che fino a qui non spiegano il titolo del romanzo. Ebbene, fin da subito nel corso della lettura abbiamo l’anticipazione di un anziano Kemal certo nel suo proposito di creare un museo, una sorta di stanza delle meraviglie, che esponga tutti gli oggetti di cui entra in possesso negli anni dell’amore con Fusun, gli anni della sua assenza e del suo passaggio. E quindi non solo orecchini e abiti ma anche diverse centinaia di mozziconi di sigaretta, soprammobili e anticaglie che raccontano una storia di amore e speranza e che insieme documentano una Istanbul perduta a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. La cosa entusiasmante di tutto ciò è che questo museo esiste davvero ed è visitabile come descritto nel romanzo, espone gli oggetti presenti nel romanzo e rende tangibile una storia di pura fantasia. Qui sotto vi riporto qualche foto delle bacheche del museo, e qualche foto pure di Istanbul che ad oggi è la città che più mi ha affascinata.



Riguardo alla mia opinione personale su questo romanzo devo confessare di esserne rimasta delusa. L’idea che muove la narrazione è originale ma mi pare che Pamuk sia sia troppo dilungato nelle oltre 500 pagine che costituiscono questo romanzo, senza una giustificazione valida perché nel corso della lettura incontriamo ripetizioni di concetti e situazioni che non aggiungono niente di più rispetto a quanto precedentemente letto. Ridondante quindi, e a mio parere troppo impreciso nel descrivere gli stati psicologici dei protagonisti: tante similitudini a mio parere, senza mai arrivare al centro e al concetto della narrazione. Se dobbiamo individuarne uno penso si debba guardare a Proust e al citato Auster: la potenza degli oggetti, la persistenza della memoria.

R. Magritte, La persistenza della memoria

Ed infine: il Museo dell'Innocenza non è "solo" un libro, né solo un museo fisico: è anche un film e il catalogo della mostra stessa. Ai pochi coraggiosi arrivati fin qui consiglio questo breve video che invoglierà la visione del documentario firmato da Grant Lee.



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