top of page
  • Immagine del redattoresilvia_tra_le_righe

Mentre morivo di William Faulkner

Aggiornamento: 30 giu 2018

Ecco qual è il guaio di questo paese: tutto, il tempo, ogni cosa, dura troppo. Come i nostri fiumi, la nostra terra: opaca, lenta, violenta; che forma e crea la vita dell'uomo nella propria immagine implacabile e pensosa.

Un titolo che è già un presagio: Mentre morivo è un romanzo polifonico in cui cinquantanove monologhi di quindici personaggi vanno a comporre una storia di cruda desolazione e amara ironia, ambientata in un paesino sgangherato di un’America rurale negli anni ’30 del Novecento.



Semplice l’intreccio: una donna morente ha un unico desiderio prima di prendere congedo dalla vita: essere sepolta nella propria città natale, Jefferson, ben lontana dal remoto paese della contea di Yoknapatawpha ove risiede con la famiglia. Mentre morivo è il racconto di un corteo funebre che assume le proporzioni di un’epopea, tale che Faulkner prenderà in prestito le parole dell’Odissea per desumerne il titolo e un’aspra constatazione esistenziale: “a terra morente (...) la faccia di cagna (...) non ebbe il cuore, mentre andavo nell'Ade, di chiudermi gli occhi”.


Sette le voci principali, tutte appartenenti alla numerosa famiglia Bundren. Addie è la donna morente, moglie infelice di Anse, contadino sdentato ed egoista, e madre di cinque figli: Cash è il falegname e dunque l’addetto alla costruzione della bara sotto gli occhi vigili dell’agonizzante; Darl è il reduce di guerra, il figlio escluso e disadattato ed è proprio per questo che alla sua voce e al suo sguardo lucido sono affidati numerosi capitoli. Proprio Darl sarà il capro espiatorio che pagherà con la propria reclusione e il silenzio forzato i segreti della propria famiglia. Ecco una considerazione sulla follia da parte di Cash:


“Certe volte non sono tanto sicuro di chi ha il diritto di dire quando uno è pazzo e quando no. Certe volte penso che nessuno di noi è del tutto pazzo e nessuno è del tutto normale finché il resto della gente lo convince a andare in un senso o nell’altro. È come se non fosse tanto quello che uno fa, ma com’è che lo guarda la maggioranza di noi quando lo fa. [..] Ma non sono poi così tanto sicuro che uno abbia il diritto di dire che cos’è pazzo o che cosa non lo è. È come se dentro a ognuno ci fosse qualcuno che è al di là dell’esser normale o dell’esser pazzo, e le cose normali e le cose pazze che fa le guarda con lo stesso orrore e lo stesso stupore”.


Jewel è il figlio prediletto dalla madre, il più amato e il più sprezzante nei confronti della famiglia per ragioni che il romanzo saprà sdipanare; Dewey Dell è l’unica figlia femmina, diciassettenne e già colpevole di essere donna e dunque predestinata ad una vita di soprusi e sopraffazioni alle quali eppure cercherà di opporsi. Vardaman infine è il figlio minore e innocente, il quale assiste impotente allo sfacelo fisico e morale della famiglia Bundren.


La difficoltà principale che si riscontra nella lettura di questo romanzo corale riguarda innanzitutto la comprensione dei fatti narrati. Non abbiamo una narratore onnisciente a raccontarci le vicende che si susseguono, ma quindici diversi personaggi, quindici voci (e registri linguistici!) che filtrano la realtà secondo la propria percezione e sensibilità, omettendo alcuni dettagli per il lettore fondamentali, ed enfatizzandone altri all’apparenza meno significativi. I cambi di registro complicano ulteriormente la comprensione se si considera che i rapporti tra i personaggi vengono svelati solo dopo svariate decine di pagine con l’indimenticabile monologo post-mortem della defunta Addie Bundren, che così si esprime:


“Così mi presi Anse. E quando mi resi conto di avere Cash, mi resi conto che vivere era terribile e che quella era la risposta. Fu allora che capii che le parole non servono a nulla; che le parole non corrispondono mai neanche a quello che tentano di dire. Quando nacque mi resi conto che maternità era stata inventata da qualcuno che doveva trovarle una parola perché a chi i bambini li ha avuti non gli importava nulla se c’era una parola o no. Mi resi conto che paura era stata inventata da qualcuno che non aveva mai avuto paura; orgoglio, da qualcuno che di orgoglio non ne aveva mai avuto… Anche lui aveva una parola. Amore, lo chiamava. Ma era da un pezzo che avevo fatto l’abitudine alle parole. Sapevo benissimo che quella parola era come tutte le altre: semplicemente una forma per riempire un vuoto; che quando fosse venuto il momento, non ci sarebbe stato bisogno di una parola, per quello, più che per l’orgoglio o per la paura.”


Un’altra difficoltà riguarda la costruzione della frase e il linguaggio: i periodi sono sincopati, i nessi causali e temporali vengono spezzati, le parole sono cariche di suggestioni e metafore che si rincorrono tra le pagine. Il flusso di coscienza del realismo Novecentesco, caro a Joyce e a Virginia Woolf, e l’invenzione dell’impersonalità del Verga dei Malavoglia qui si fondono e cadenzano il ritmo della narrazione, disorientando il lettore in una polifonia inestricabile di soliloqui capaci di trasportarci nell’intima dimensione di ciascun personaggio di una non meglio specificata America violenta e disperata.


Un romanzo ruvido, che colpirà l’immaginario di quel lettore che vorrà impegnarsi del districare i fili della narrazione e le numerose suggestioni che Faulkner elargisce sulla pagina.

220 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page