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Citazioni/ La cantina di Thomas Bernhard

  • Immagine del redattore: silvia_tra_le_righe
    silvia_tra_le_righe
  • 26 mar 2019
  • Tempo di lettura: 17 min


"Finché con mossa improvvisa avevo avuto la forza di interrompere quel cammino, di fare un dietrofront al cento per cento che io stesso non avrei mai creduto di poter fare, ma un simile dietrofront si può farlo soltanto quando si è al culmine massimo di uno sforzo intellettuale ed emotivo, un momento in cui uno, ormai può compiere soltanto quel dietrofront oppure uccidersi, quando l'opposizione contro tutto ciò che è una persona quale io ero allora è un'opposizione assoluta e micidiale."

"Uno non può vivere solo e appartato, quelli che vivono soli e appartati vanno a picco per forza, non possono che andare a picco, e la società, in quanto ambiente micidiale che ci circonda, conferma le cose che sto dicendo."


"Il sabato la tempesta si addensa, la domenica si scarica, il lunedì ritorna la quiete. L'uomo non ama la libertà, tutto il resto sono frottole, l'uomo non sa che farsene della libertà, appena è libero si mette ad aprire cassettoni pieni di vestiti e biancheria, a ordinare vecchie carte, a cercare fotografie, documenti e lettere, va nel suo giardino a vangare la terra oppure si mette a correre assurdamente e senza scopo in una direzione qualsiasi, senza badare se il tempo è buono o cattivo, e questo lo chiama andare a passeggio. E dove ci sono dei bambini, a essi si ricorre per la famosa questione di come ammazzare il tempo, e perciò li si stuzzica, li si bastona, li si schiaffeggia affinché  provochino quel caos che in verità è la salvezza."


"Imparai che il sapersi continuamente disciplinare è la premessa per andare avanti nella vita di ogni giorno, e che bisogna fare ordine continuamente, non soltanto nella propria testa, ma in tutte le cose, piccole e piccolissime di ogni giorno."


"Non si può mai rispondere all'interrogativo sulla felicità, noi facciamo ipotesi e paragoni, ma non dobbiamo lasciarci prendere dalla tentazione di rispondere a questo interrogativo. La felicità è in tutti e in nessuno, e così pure l'infelicità. Quello che noi vediamo, che cosa ci dice? Noi ci domandiamo spesso che cosa sia e dove stia la felicità, perché questo è il solo interrogativo che ci appassiona sempre e per tutta la vita, senza mai darci tregua. Ma a questo interrogativo noi non dobbiamo dare una risposta, se siamo saggi e non vogliamo sporcarci con la nostra sporcizia più di quanto ci siamo già sporcati."





"Ho preso da mio nonno l'abitudine, che poi mi è rimasta per tutta la vita, di alzarmi presto, quasi sempre prima delle cinque del mattino. È un rituale che ripetendosi permette di affrontare le stagioni con una immutabile disciplina che si oppone ogni giorno alle forze inesauste della pigrizia, pur non cessando mai la consapevolezza che ogni fare è sempre e soltanto un fare insensato.

L'isolamento è per lunghi periodi un isolamento totale del corpo e dello spirito, e solo assoggettandomi ai miei bisogni in modo totale e con irrevocabile fermezza io riesco a venire a capo di me stesso. Periodi di assoluta ripetizione si alternano a periodi in cui accade il contrario, soggetto come sono a tutte le possibili oscillazioni della mia natura e all'universo intero, qualunque cosa esso sia, io riesco a cavarmela solo se mi attengo a un ritmo giornaliero esattamente prestabilito. Solo perché mi metto contro di me e perché in effetti sono sempre contro di me, mi riesce di esistere. Quando scrivo non leggo nulla, quando leggo non scrivo nulla, e per lunghi periodi di tempo non leggo nulla e non scrivo nulla, entrambe le cose mi ripugnano allo stesso modo. Per lunghi periodi scrivere e leggere mi risulta altrettanto odioso, e sono condannato all'inattività, vale a dire all'esame torturante e approfondito della mia personalissima catastrofe che vedo da un lato come curiosità, dall'altro come conferma di tutto ciò che io sono oggi, nonché di tutto ciò che in queste circostanze tanto quotidiane quanto innaturali, artificiose, e addirittura perfide, io con l'andar del tempo sono diventato.

Le insidie che mi fanno inciampare e disperare, che ogni giorno mi fanno quasi ammattire, perdono con me qualsiasi efficacia purché io riesca a chiarirle in tutto e per tutto, e ugualmente non c'è cosa che possa attaccarmi, né tanto meno farmi morire a poco a poco, se io riesco a chiarirla dentro di me.

Chiarire l'esistenza, non solo comprenderla ma far luce in essa ogni giorno fino al massimo grado è l'unica possibilità di venirne a capo. Prima non avevo questa possibilità di intervenire nel gioco micidiale e quotidiano dell'esistenza, mi mancavano la forza e l'intelligenza per farlo, oggi è un meccanismo che si mette in moto da sé. È un fare ordine giorno per giorno, un fare pulizia nella mia testa nella quale le cose vengono rimesse ogni giorno al loro posto. Quello che non serve viene scartato e semplicemente cacciato via dalla mia testa. La spietatezza è anche un segno distintivo della vecchiaia. Per sopravvivere alle mode non c'è altra salvezza che l'isolamento e l'imperturbabilità dello spirito. Quante mode intellettuali non ho già visto sfilare davanti a me. I volgari sfruttatori di rimasugli sono sempre all'opera. Ma quelli che dominano il mercato svendendo la loro merce si riconoscono subito e man mano che passa il tempo si impantanano da soli nella loro sozzura.

Colui che sopravvive deve cercarsi un angolo appartato che sia propizio alle sue conquiste. L'aria è rarefatta, ma io ci sono avvezzo. I termini dell'aut aut sono da tempo in posizione di equilibrio. Che cosa si deve apprezzare di più, la bella frase o il termine elementare? Il nonsenso rimane. Ho ascoltato tutto e non ho seguito nulla. Anche oggi continuo a sperimentare che non sapere come le cose vanno a finire affascina gli esseri solitari, e io sono ridiventato un essere solitario. È da tempo che non mi chiedo più il senso delle parole, le quali non fanno altro che rendere il tutto ancora più incomprensibile. La vita in sé e per sé, l'esistenza in sé e per sé, sono tutti luoghi comuni. Ogni volta che andiamo indietro con la memoria, come io faccio ora, tutto a poco a poco si liquida da sé.

Per tutta la vita stiamo insieme a persone che di noi non sanno assolutamente nulla, e che affermano tuttavia in continuazione di sapere tutto di noi, i nostri parenti più stretti e i nostri amici più intimi di noi non sanno nulla perché noi stessi ne sappiamo poco. Per tutta la vita cerchiamo di scoprire quello che siamo, ma arriviamo ogni volta al limite dei nostri mezzi intellettuali e allora rinunciamo. I nostri sforzi danno luogo sempre a un totale sfinimento e a una depressione fatale e sempre micidiale. Quello che noi stessi non abbiamo il coraggio di dirci, perché in effetti siamo incompetenti, gli altri invece osano rinfacciarcelo, ma costoro, o perché non vogliono o perché non possono, non vedono proprio nulla, né di fuori né di dentro. Noi tutti siamo ininterrottamente esseri umani rigettati da altri esseri umani che ogni giorno devono ritrovare, raccattare e ricomporre i frammenti di se stessi. Anche noi, man mano che andiamo avanti negli anni, pronunciamo giudizi che sono sempre più severi e siamo costretti a tollerare che gli altri pronuncino a loro volta giudizi contro di noi due volte più severi dei nostri.

L'incompetenza regna sovrana sotto ogni aspetto e, con l'andar del tempo, è naturale che provochi l'indifferenza. Dopo tanti anni di vulnerabilità e violabilità siamo ormai diventati quasi inviolabili e invulnerabili, percepiamo le ferite che ci vengono inflitte, ma non siamo più ipersensibili come una volta. Assestiamo agli altri colpi più duri e sopportiamo da loro colpi più duri. La vita parla un linguaggio più conciso, più distruttivo, il linguaggio che oggi parliamo anche noi, non siamo più così sentimentali da avere ancora delle speranze. L'assenza di ogni speranza ci ha chiarito che cosa siano gli uomini, le cose, le situazioni, il passato, il futuro, e così via. Abbiamo raggiunto un'età nella quale noi stessi siamo la miglio-re dimostrazione di tutto ciò che ci è capitato durante la nostra vita. Quanto a me, ho fatto tre esperienze: l'esperienza di mio nonno e l'esperienza di tutti gli altri miei simili per me meno importanti e la mia personale esperienza. Ciascuna di queste esperienze, unita alle altre, mi ha evitato le molte propensioni a impegolarmi in quisquilie. Non posso negare di aver sempre condotto due esistenze, una assai vicina alla verità che in effetti ho il diritto di chiamare realtà, e un'altra esistenza, un'esistenza fittizia, tutte e due insieme con l'andar del tempo hanno prodotto una esistenza che mi tiene in vita, ora domina l'una ora domina l'altra, ma io vivo sempre, si badi bene, entrambe queste esistenze insieme. Fino a oggi.

Se non avessi vissuto veramente ciò che oggi nel suo complesso costituisce la mia esistenza, probabilmente tutto questo me lo sarei inventato per conto mio giungendo allo stesso risultato. A ogni nuovo giorno, a ogni nuovo istante sono andato avanti per cause di forza maggiore, le malattie e infine, molto più tardi, le malattie mortali mi hanno fatto scendere dalle nuvole ponendomi sul terreno della sicurezza e dell'indifferenza. Oggi sono piuttosto sicuro, pur essendo consapevole che tutto è estremamente insicuro, che non ho in mano nulla, che si tratta soltanto di un allettamento, allettamento che pur essendo esercitato di continuo e inesauribilmente, è tutto ciò che mi resta dell'esistenza, e oggi tutto quanto mi è piuttosto indifferente, per cui io, in questo gioco nel quale si può soltanto perdere, ho vinto in ogni caso l'ultima partita. Le illusioni di mio nonno io non le ho mai avute, e tuttavia non sono riuscito a sfuggire agli stessi errori commessi da lui. Il mondo non è così importante come lui ha creduto e non tutto in esso ha quel valore che lui per tutta la vita ha temuto che avesse, i paroloni e le frasi altisonanti io li ho sempre presi per quello che sono: manifestazioni di incompetenza alle quali non bisogna far caso.

La povertà che lo ha irretito e che gli ha reso amara l'esistenza non mi ha mai convinto più di quanto mi abbia convinto la ricchezza di cui lui ha sognato. Le strade che ho percorso io, lui, mio nonno, le aveva già percorse, questo è stato ed è tuttora il mio vantaggio, io ho avuto la possibilità di compiere studi più approfonditi. La banalità e la frase fatta sulla povertà che è propria dei ricchi e viceversa io l'ho ben presto ampliata per conto mio con un'altra banalità e un'altra frase fatta, quella sulla stupidità dell'intellettuale. Sconcertato com'era, mio nonno avrebbe sempre potuto metter fine alla commedia dalla quale si era fatto irretire per tutta la sua vita, avrebbe sempre potuto fracassare e distruggere gli attrezzi di scena e coloro che li avevano allestiti, e tutti gli attori, ma non ne aveva avuto la forza. Mio nonno odiava l'opera e ammirava il teatro di prosa, ma l'opera non è da odiare come la prosa non è da ammirare, e ugualmente non esistono uomini che bisogna odiare e altri che bisogna ammirare. Tra odio e ammirazione quasi tutti gli uomini si distruggono e mio nonno, durante i sessantotto anni della sua vita, si è lasciato spappolare da questi due concetti. Per ogni altra persona, tranne che per me, sarebbe stato un battistrada, ma io non sono mai stato un tipo da imboccare una strada. In fondo io non ho percorso una strada, probabilmente perché ho sempre avuto paura di imboccare una strada senza fine e quindi senza senso. Se volessi, dicevo ogni volta a me stesso, potrei farlo. Ma non ho imboccato nessuna strada. Fino a oggi non l'ho fatto. Qualcosa è successo, sono diventato più vecchio, non sono rimasto fermo, però non ho imboccato nessuna strada. Parlo un linguaggio che io solo capisco, nessun altro, così come ognuno parla soltanto il proprio linguaggio, e quelli che credono di capire sono degli imbecilli oppure dei ciarlatani.

Se parlo sul serio, la mia serietà non viene compresa, è sempre comunque fraintesa, per capire l'umorismo di alto livello a quanto pare non esistono ricette. Per cui ogni uomo, a prescindere da quello che è e a prescindere totalmente da quello che fa, viene ricacciato continuamente in se stesso, ogni uomo è un incubo abbandonato soltanto a se stesso. Se dipendesse dagli altri, io non esisterei più, e ogni giorno che sopraggiunge e diventa realtà è una prova di questo. Ho l'impressione di esistere come un rabdomante all'interno della mia stessa testa. Sono una parte o la vittima di questa macchina dell'esistenza che gira sempre più vorticosamente frantumando e spappolando di continuo tutto quello che è in lei? Mi chiedo. La risposta è ovviamente impossibile. Il mio carattere è l'insieme di tutti i caratteri, i miei desideri sono l'insieme di tutti i desideri, e così le mie speranze, le mie disperazioni, i miei sconvolgimenti. Soltanto la simulazione mi salva di tanto in tanto, e poi, altre volte, il contrario della simulazione. Là dove cerchiamo un rifugio, ci troviamo di fronte all'incompetenza. La corsa di colui che fugge rispecchia il suo stato mentale. Lo vediamo continuamente in fuga e non sappiamo da che cosa stia fuggendo, anche se a quanto pare sta scappando da tutto per paura di tutto. Fin dal primo istante l'uomo scappa via dalla vita, che conosce fin dal primo istante, andando, perché conosce la vita, verso la morte che non conosce. Tutti noi fuggiamo per tutta la vita e con lo sguardo fisso nella stessa direzione. Io ho aperto a quattro, a cinque e a sei anni per tutto il resto della mia vita un teatro che è poi diventato una ribalta pazzamente innamorata di centinaia e di migliaia di personaggi, dopo la data della prima gli spettacoli sono migliorati, gli attrezzi per la scena sono stati sostituiti, gli attori che non capiscono lo spettacolo che si recita sono stati cacciati via, così è sempre stato. Ciascuno di quei personaggi sono io, tutti quegli attrezzi sono io, il direttore sono io. E il pubblico? Noi siamo capaci di ampliare la scena all'infinito, o di ridurla al diorama della nostra mente. Meno male che abbiamo sempre avuto un modo ironico di guardare le cose, per quanto serie esse fossero nell'insieme. Noi, cioè io.

Abbiamo demolito tutti i pregiudizi per poi ricostruirli più grandi ancora, è un lusso che ci siamo concessi. Noi comprendiamo che cosa intende la gente quando parla di orgoglio, di arroganza, di presunzione. Quello che vien detto è giusto, perché tutto è giusto e non occorre ritrattare nulla, tutte le obbligazioni e tutte le vergogne noi le riscatteremo. Niente di quello che ci era stato predetto si è realizzato. Quello che ci hanno dato a intendere si è rivelato da molto tempo un inganno. Eravamo ossessionati dalle idee e ci siamo lasciati andare alla follia e alla pazzia, ma il prezzo di questo lo abbiamo pagato. Dove saremmo andati a finire se avessimo dato retta alle persone che sono per così dire il nostro prossimo? Siamo sempre stati indotti a fare il contrario da questa evoluzione, che forse sarà ridicola, ma, come si vede, è vitale. E benché sia stato solo un incubo, ne valeva la pena. Qualche volta affermiamo che si tratta di una tragedia, qualche volta al contrario diciamo che è una commedia, ma non siamo in grado di dire: ora è una tragedia, ora è una commedia. Gli attori sono comunque convinti dell'assurdità della mia tragedia, come pure della mia commedia. E gli attori hanno sempre ragione. Se abbiamo stabilito un'entrata in scena da sinistra, l'entrata in scena avviene da destra e viceversa, ma questo loro non l'hanno visto, a loro è sfuggito l'elemento essenziale della nostra recita. Gli attori non capiscono ciò che viene recitato, perché io stesso non capisco ciò che viene recitato. A che serve sbirciare nelle carte di un pazzo? Anche se, parlando di se stesso, costui non pretende di non essere un pazzo. Un bambino è sempre un direttore di spettacoli e io sono stato un direttore di spettacoli fin dai miei primi anni. Prima ho messo in scena una tragedia al cento per cento, poi una commedia, poi di nuovo una tragedia e poi il teatro si è mescolato e ora non si riconosce più se si tratta di una tragedia o di una commedia. Questo confonde gli spettatori. Mi hanno applaudito, adesso se ne pentono. Hanno taciuto e mi hanno vilipeso, adesso se ne pentono. Siamo sempre in anticipo su noi stessi e non sappiamo se dobbiamo applaudire oppure no. Il nostro stato mentale è imprevedibile. Siamo tutto e niente. Esattamente nel mezzo si trova il punto dove prima o poi andremo sicuramente a picco. Tutto il resto sono affermazioni ottuse. Abbiamo preso le mosse dal teatro nel vero senso della parola. La natura è il teatro in sé. E sulla scena di questa natura in quanto teatro in sé si muovono gli uomini come attori dai quali non c'è più molto da aspettarsi. Una volta, tre o quattro anni fa, all'imbocco del cosiddetto Ponte Nazionale, davanti all'arco del Municipio dove ancora oggi c'è un famoso negozio di ombrelli e poco più in là la bottega di un gioielliere non meno famoso, mi sono sentito chiamare da una voce maschile, e voltandomi ho visto che mi stava chiamando un uomo di cinquant'anni circa appoggiato a un martello pneumatico che in quel momento non era in funzione, l'uomo era a torso nudo con la pancia che debordava dai pantaloni della tuta blu, sudato, completamente senza denti, con pochi capelli in testa ma occhi penetranti – che fosse un ubriacone l'avevo visto subito -, mentre il suo collega più o meno della stessa età, a differenza del primo magro e allampanato, portava in testa un bisunto berretto di tela con visiera e continuava a lavorare ostentatamente, ammucchiando con una pala il pietrisco che l'uomo grasso aveva scavato dal suolo e frantumato con il martello pneumatico: i due stavano scavando per trovare le condutture del gas e dell'acqua nel quadro dei lavori per la ricostruzione del ponte, e io guardai dritto in faccia il tipo grasso che evidentemente mi aveva riconosciuto, mentre io non lo riconoscevo; mi ero fermato in mezzo alla fiumana di gente che passa di lì la mattina e non riuscivo a ricordarmi di quell'uomo, lui invece si ricordava di me mentre io non riuscivo a spiegarmi dove lo avessi conosciuto. D'altro canto mi era chiaro che quella faccia l'avevo già vista, ma, pensavo: dev'essere stato molto tempo fa, e pensavo anche: quest'uomo non si sbaglia.

Egli mi anticipò: disse che gli avevo riempito molto spesso la bottiglia di rum di sua madre nella bottega di Karl Podlaha nel quartiere di Scherzhauserfeld, e poi che una volta gli avevo dato delle bende prendendole dall'armadio della stanza attigua al negozio e gliele avevo avvolte intorno al capo ferito sulla scala del nostro negozio. Questo fatto non riuscivo a rammentarlo, ma del giovane che quell'uomo era stato venticinque anni prima tutt'a un tratto mi ricordai benissimo. A quei tempi, disse, io ero ancora talmente piccolo che a malapena riuscivo a vedere al di là del banco del negozio. Esagerava, eppure in fondo aveva osservato ogni cosa con precisione. Sembrava che ricordasse volentieri quel tempo che era stato la sua gioventù e anch'io, in quell'occasione, ricordai volentieri il tempo della mia gioventù, e così siamo rimasti in silenzio per un paio di minuti, senza dire una sola parola, e ci siamo ricordati del tempo della nostra gioventù. Lui non sapeva nulla di me, io non sapevo nulla di lui, ma quel mattino, all'imbocco del ponte, in mezzo a tutta quella gente, abbiamo constatato che avevamo avuto una gioventù in comune nel quartiere di Scherzhauserfeld e che eravamo sopravvissuti, ciascuno a modo suo. Che noi, ciascuno a modo suo, dopo aver affrontato le inaudite difficoltà di tutti quelli che invecchiano, eravamo invecchiati di venticinque anni.

Quell'uomo con il martello pneumatico mi fece vedere improvvisamente, dopo che io lo avevo dimenticato per tanti anni, il quartiere di Scherzhauserfeld, il marchio d'infamia di una città che da quel suo marchio d'infamia aveva sempre attinto e fatto venire nel proprio seno solo gente da adibire ai lavori più umili. E ancora oggi, pensai, la gente del quartiere di Scherzhauserfeld svolge in città solo i lavori più umili e chi passa loro accanto a questo non pensa affatto. Quell'uomo voleva sapere che cosa ne fosse stato di Podlaha, che fine avesse fatto, ma io non sapevo nulla. Chiese di Herbert il commesso e di Karl l'apprendista. Io gli dissi che Herbert si era messo per conto proprio, che aveva aperto una torrefazione nella Ernest-Thun-Strasse, e che Karl si era arruolato nella Legione straniera, ma era ritor-nato da molti anni. Aggiunsi che Karl era stato più volte in prigione, come avevo saputo dalla signora che abitava nell'alloggio sopra il nostro negozio. Lui era quello che andava scalzo anche d'inverno, disse, estate e inverno, tutto l'anno. Io continuavo a non ricordarmi. Ma quando disse che qualche volta, nei momenti difficili, mi aveva aiutato a scaricare le patate, allora mi ricordai di lui, era spesso al campo sportivo, ci andava da solo con il cane di suo zio al quale lanciava verso il centro del campo dei pezzi di legno, per ore e ore, tanto per passare il tempo. Fece parecchi nomi e tutti quei nomi io li conoscevo, erano nomi di clienti che nel negozio erano stati pronunciati e chiamati ogni giorno, e che io non sentivo più da venticinque anni. Di questo e di quello disse che era morto, di morte naturale o non naturale. Aveva una sorella, disse, che era andata in America con un americano, a New York, e lì aveva fatto una misera fine. Domandò se mi ricordavo di sua sorella, una splendida ragazza.

Di Podlaha disse che aveva paura, una volta era stato sorpreso da Podlaha mentre stava rubando un paio di mele. Non gli aveva rubato soltanto delle mele, disse. I giovani di oggi non avevano un'idea di quanto a quei tempi tutto fosse difficile. Quando con loro si faceva un'allusione alla guerra, al dopoguerra, ai nazisti e agli americani, nel complesso un vero e proprio inferno, quelli non capivano niente. Lui era venuto per anni da noi nella cantina a prendere il rum nella bottiglia che portava a sua madre fino al letto dove lei aveva fatto una misera fine. Ma era talmente buona, sua madre, che, benché ridotta letteralmente a uno scheletro, aveva vissuto per un anno con il suo cancro non prendendo altro che quel rum e dei panini intinti nel rum. Era una donna religiosa, ma non era mai andata in chiesa in vita sua. Timorata di Dio, ma non cattolica, disse. Quindi volle sapere ciò che facevo io adesso. Scrivevo, dissi, ma era una cosa che non gli diceva niente, non riusciva a immaginare che cosa potesse essere e non insistette oltre nella sua domanda. Mi chiese se avevo una sigaretta. Dissi di no. Podlaha gli faceva una grande impressione, da un lato lo temeva, dall'altro gli faceva una grande impressione perché sapeva fare così bene i suoi affari. I viennesi erano sempre stati le teste più fini. Anche lui, come tutti i provinciali, disprezzava i viennesi. In un certo senso, disse, senza far capire che cosa intendesse con queste parole, ma comunque non c'era niente da capire, lui era contento della sua situazione, per quanto fosse schifosa. Alla sua età, disse, a uno non gl'importa più niente di niente, si è attaccati alla vita, ma se anche la vita finisce è lo stesso.

È lo stesso, proprio così. È una questione di età. È lo stesso. Anche per me in quel momento tutto era lo stesso. Una bella espressione, chiara, breve, che rimane impressa: è lo stesso. Noi due ci capivamo. Disse che era ora di pranzo, e se andavo a mangiare un boccone con lui, io feci un giro un po' più lungo e andai a pranzo con lui, entrammo nel giardino della Birreria della Stella a bere una birra e a mangiare pane e salsicce. Lui aveva immaginato che la sua vita potesse essere qualcosa di diverso dalla vita che poi in realtà era stato costretto a vivere, non lo disse con queste parole, ma il senso era questo. Non diversamente le cose si erano svolte per me. Il quartiere di Scherzhauserfeld e Karl Podlaha al centro di quel quartiere erano risuscitati. Ricordammo molti fatti. Salve e tutto è lo stesso, disse alla fine ed era come se lo avessi detto io. La mia caratteristica peculiare è oggi l'indifferenza e la consapevolezza della equivalenza di tutto ciò che è stato, è e sarà. Non ci sono alti valori, né valori più elevati, né valori supremi, tutto questo è liquidato. Gli uomini sono quel che sono e non si possono cambiare, proprio come le cose che gli uomini hanno fatto, fanno e faranno. La natura non conosce differenze di valore. Ogni giorno che viene, si tratta sempre e soltanto di uomini con tutte le loro debolezze e tutta la loro lordura fisica e intellettuale. Che importa se uno si dispera con il martello pneumatico e un altro con la macchina da scrivere. Sono solo le teorie che storpiano ciò che in fondo è chiarissimo, le filosofie e le scienze nel loro insieme che con le loro inservibili nozioni intralciano la strada che porta alla chiarezza. Quasi tutte le vie sono state battute, ciò che ancora deve venire non potrà sorprenderci, perché tutte le possibilità sono state contemplate.

Chi ha fatto tanti sbagli e ha irritato e disturbato e distrutto e annientato e si è torturato e ha studiato e si è spesso liquidato da sé e si è quasi ammazzato e si è ingannato e vergognato e poi non vergognato, in futuro si ingannerà e farà di nuovo molti sbagli e irriterà, e disturberà e distruggerà e si torturerà e studierà e da sé si liquiderà e quasi si ammazzerà e così continuerà fino alla fine. Ma in definitiva tutto è lo stesso. Si scoprono le carte, un poco alla volta. L'idea era quella di rintracciare l'esistenza, la propria non meno delle altre. Noi ci riconosciamo in ogni uomo, chiunque egli sia, e siamo condannati a essere quest'uomo fin quando dura la nostra esistenza. Noi siamo tutte queste esistenze e tutti questi esistenti insieme e andiamo alla ricerca di noi stessi, però non ci troviamo, per quanto tenaci siano i nostri sforzi. Abbiamo sognato la sincerità e la chiarezza, ma tutto ciò è rimasto un sogno. Abbiamo spesso rinunciato e spesso ricominciato, e ancora molte volte rinunceremo per poi ricominciare. Ma tutto è lo stesso. L'uomo del quartiere di Scherzhauserfeld con il suo martello pneumatico mi ha dato il mio motto: tutto è lo stesso.

È l'essenza della natura che tutto sia lo stesso. Salve e tutto è lo stesso; io sento di continuo le sue parole, che sono parole sue malgrado le sue parole siano le mie e io stesso abbia detto molte volte salve e tutto è lo stesso. Comunque andava detto in quel momento. Io lo avevo già dimenticato. Noi siamo condannati a vivere una vita, e dunque la nostra è una condanna a vita, per uno o più delitti, chi lo sa?, che non abbiamo commesso, oppure che commettiamo di nuovo per altri che verranno dopo di noi. Non siamo stati noi a chiamarci in vita, tutt'a un tratto siamo esistiti e già in quell'istante ci hanno resi responsabili. Abbiamo acquistato in capacità di resistere, nulla ormai può farci capitolare, non siamo più attaccati alla vita ma nemmeno la svendiamo a un prezzo troppo basso, questo era quello che avrei voluto dire, ma non l'avevo detto. Tutti qualche volta alziamo la testa credendo di dover dire la verità o quella che sembra la verità, e poi di nuovo la incassiamo nelle spalle. Questo è tutto."




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