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La caduta di Albert Camus

Per l'uomo moderno basterà una frase: fornicava e leggeva giornali.


La caduta è un lungo monologo recitato da Jean-Baptiste Clamence, ex avvocato parigino misteriosamente in esilio ad Amsterdam, città che viene associata a uno dei gironi dell'inferno dantesco. La caduta è il suicidio di una ragazza nella Senna ma è soprattutto la caduta morale del protagonista che scopre di essere un ipocrita. Ad uno ad uno ci svelerà, impietoso, i suoi e i nostri vizi.


Di seguito uno dei passaggi centrali in cui il protagonista descrive il proprio rapporto con le donne.

"La mia natura mi piaceva, e tutti sappiamo che la felicità è questa, anche se, per tranquillizzarci a vicenda, fingiamo a volte di condannare un tale piacere col nome di egoismo.


Vivevo perciò alla giornata, senz'altra continuità che quella dell'io-io-io. Alla giornata le donne, alla giornata virtù o vizio, alla giornata come i cani, ma ogni giorno io, saldo al mio posto. Procedevo così alla superficie della vita, in certo modo nelle parole e mai nella realtà. Tutti quei libri appena letti, gli amici appena amati, le città appena visitate, le donne appena possedute! Compivo dei gesti per noia o per distrazione. Gli esseri venivan dietro, volevano aggrapparsi, ma non c'era niente, ed ecco l'infelicità. Per loro. Perché, quanto a me, dimenticavo. Non mi sono mai ricordato d'altro che di me stesso.

Prima però deve sapere che sono sempre riuscito bene con le donne, e senza gran fatica. Non dico riuscito a farle felici, e neppure a sentirmi felice per mezzo loro. No, semplicemente riuscire. Raggiungevo i miei scopi più o meno quando volevo. Mi trovavano un certo fascino, pensi un po'! Lei sa che cos'è il fascino: un modo di sentirsi rispondere di sì senza aver posto alcuna domanda chiara.


Non c'entrava nessuna astuzia, o solo quel tanto, evidente, che esse reputano un omaggio. Le amavo, secondo l'espressione consacrata, il che significa che non ne ho mai amata nessuna. Ho sempre giudicato volgare e sciocca la misoginia, e quasi tutte le donne che ho conosciute, le ho stimate migliori di me. Tuttavia, collocandole così in alto, le ho utilizzate più spesso di quanto le abbia servite. Come capirci qualcosa?

Quando andavo così considerando la difficoltà di separarmi definitivamente da una donna, difficoltà che mi induceva a tante relazioni simultanee, non la imputavo a tenerezza di cuore. Non agivo per tenerezza quando una delle mie amiche si stancava di attendere la battaglia di Austerlitz della nostra passione e parlava di ritirarsi. Ero io che immediatamente facevo un passo avanti, mi lasciavo andare a concessioni, diventavo eloquente. La tenerezza e dolce debolezza d'un cuore, ero io a destarle in loro; ma personalmente non ne provavo altro che l'apparenza, solamente un po' eccitato da quel rifiuto, ed anche allarmato dalla perdita possibile di un affetto. Talvolta, è vero, credevo di soffrire sul serio. Bastava tuttavia che la ribelle partisse veramente, perché la dimenticassi senza sforzo, come la dimenticavo vicina quando invece aveva deciso di ritornare. No, non era né amore né generosità a risvegliarmi quando c'era pericolo che fossi abbandonato, ma soltanto il desiderio di essere amato e di ricevere quello che secondo me mi era dovuto. Non appena amata, e dimenticata di nuovo la mia compagna, io rifulgevo, stavo a meraviglia, diventavo simpatico. Noti per altro che di quell'affetto, appena riconquistato, io sentivo il peso.


D'altronde, quale che fosse l'apparente confusione dei miei sentimenti, il risultato ottenuto era chiaro: mi conservavo intorno tutti i miei affetti per servirmene quando volessi.”

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