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Lessico famigliare di Natalia Ginzburg

Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all'estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l'uno con l'altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: "Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna" o "De cosa spussa l'acido solfidrico", per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l'uno con l'altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiri-babilonesi, testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e resuscitando nei punti piú diversi della terra, quando uno di noi dirà — egregio signor Lippman — e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: "Finitela con questa storia! L'ho sentita già tante di quelle volte!"



Uno dei dieci romanzi più belli che abbia mai letto. Il titolo può forse spaventare: “lessico” rimanda alle lezioni di ortografia, sintassi e grammatica che hanno costellato i nostri studi dalle elementari in poi. A ben vedere “lessico” altro non significa che “repertorio di parole”, parole usate in famiglia, dunque. In questa splendida autobiografia in forma di romanzo, Natalia Levi-Ginzburg descrive con una penna quanto mai ironica e brillante le figure del padre, della madre, dei fratelli e degli amici intellettuali (Turati, Pavese, Einaudi, Ginzburg, Olivetti) che gravitano attorno alla Torino del primo e del secondo dopoguerra.


Le vicende della Storia – antisemitismo, fascismo, la Resistenza – si affastellano e si intrecciano con le atmosfere intime della casa: la domestica sbaglia sempre i pronomi, la madre “si stufa” e agogna il cinematografo, il padre è un uomo dispotico che ama “skiare” in montagna e che prova repulsione per l’arte contemporanea, tra cui Modigliani e Casorati, definendola “sbrodeghezzi”, Leone Ginzburg legge per ore in piedi “come per caso”, Pavese pranza all'una in punto con la minestra preparata dalla sorella, Einaudi incute timore con i suoi gelidi occhi azzurri. Un libro sensazionale, che stupisce per sensibilità e acume e per quella vista magica che caratterizza i migliori intellettuali: la capacità, sopra ogni cosa, di cogliere la natura profonda degli esseri umani grazie a solo qualche indizio.

Di seguito la descrizione più bella di sempre della persona di Cesare Pavese:


"Balbo, quando smetteva un momento di discutere con quei suoi amici, esponeva a Pavese e a me le sue idee sul nostro modo di scrivere. Pavese lo ascoltava seduto in poltrona, sotto il lume, fumando la pipa, con un sorriso maligno: e di tutte le cose che Balbo gli diceva, lui diceva che  le sapeva già da lunghissimo tempo.

Ascoltava, tuttavia, con vivo piacere. Aveva sempre, nei rapporti con i suoi amici, un fondo ironico, e usava, noi suoi amici, commentarci e conoscerci con ironia; e questa ironia, che era forse tra le cose più belle che aveva, non sapeva mai portarla nelle cose che più gli stavano a cuore, non nei suoi rapporti con le donne di cui s’innamorava, e non  nei suoi libri: la portava soltanto nell’amicizia, perché l’amicizia era, in lui, un sentimento naturale e in qualche modo sbadato, era cioè qualcosa a cui non dava un’eccessiva importanza. Nell’’amore, e anche nello scrivere, si buttava con tale stato d’animo di febbre e di calcolo, da non saperne mai ridere, e da non esser mai per intero se stesso: e a volte, quando io ora penso a lui, la sua ironia è la cosa di lui che più ricordo e piango, perché non esiste più: non ce n’è ombra nei suoi libri, e non è dato ritrovarla altrove che nel baleno di quel suo maligno sorriso.

(…)

Quanto a Pavese, commetteva altri errori  per conto suo, ma non i medesimi, e incespicava su altre strade, dove camminava solo, con attitudine sprezzante e caparbia, e con animo dolente e mite. Pavese commetteva errori più gravi dei nostri. Perché i  nostri errori erano generati da impulso, imprudenza, stupidità e candore; e invece gli errori di Pavese nascevano dalla prudenza, dal calcolo, e dall’intelligenza. Nulla è pericoloso come questa sorta di errori. Possono essere, come lo furono  per lui, mortali; perché dalle strade che si sbagliano per astuzia, è difficile ritornare. Gli errori che si commettono per astuzia, ci avviluppano strettamente: l’astuzia mette in noi radici più ferme che non l’avventatezza o l’imprudenza: come sciogliersi da quei legami così tenaci, così stretti, così profondi? La prudenza, il calcolo, l’astuzia hanno il volto della ragione: il volto, la voce amara della ragione, che argomenta con i suoi argomenti infallibili, ai quali non c’è nulla da rispondere, non c’è che assentire. Pavese si uccise un’estate che non c’era, a Torino, nessuno di noi. Aveva preparato e calcolato le circostanze che riguardavano la sua morte, come uno che prepara e  predispone il corso d’una passeggiata o d’una serata. Non amava vi fosse, nelle passeggiate e nelle serate, nulla  d’imprevisto o di casuale.

Quando andavamo, lui, io, i Balbo e l’editore, a far passeggiate in collina, s’irritava moltissimo se qualcosa deviava il corso da lui predisposto, se qualcuno arrivava  tardi all’appuntamento, se cambiavamo all’improvviso il programma, se si aggiungeva a noi una persona imprevista, se una circostanza fortuita ci portava a mangiare, invece che nella trattoria che lui aveva prescelto, nella casa di qualche conoscente incontrato  inaspettatamente per strada. L’imprevisto lo metteva a disagio. Non amava esser colto di sorpresa. Aveva parlato, per anni, di uccidersi. Nessuno gli credette mai. Quando veniva da me e da Leone mangiando ciliegie, e i tedeschi prendevano la Francia, già allora ne parlava. Non per la Francia, non per i tedeschi, non per la guerra che stava investendo l’Italia. Della guerra aveva paura, ma non abbastanza per uccidersi a motivo della guerra. Continuò tuttavia ad avere paura della guerra, anche dopo che la guerra era  da gran tempo finita: come, del resto, noi tutti. Perché questo ci accadde, che appena finita la guerra ricominciammo subito ad avere paura di una nuova guerra, e a pensarci sempre. E in lui la paura era più grande che in noi: era in lui, la paura, il vortice dell’imprevisto e dell’inconoscibile, che sembrava orrendo alla lucidità del suo pensiero; acque buie, vorticose e venefiche sulle rive spoglie della sua vita.

Non aveva, in fondo, per uccidersi, alcun motivo reale. Ma compose insieme più motivi e ne calcolò la somma, con precisione fulminea, e ancora li compose insieme e ancora vide, assentendo col suo sorriso maligno, che il risultato era identico e quindi esatto. Guardò anche oltre la sua vita, nei nostri giorni futuri, guardò come si sarebbe comportata la gente, nei  confronti dei suoi libri e della sua memoria. Guardò oltre la morte, come quelli che amano la vita e non sanno staccarsene, e pur pensando alla morte vanno immaginando non la morte, ma la vita. Lui tuttavia non amava la vita, e quel suo guardare oltre la propria morte non era amore per la vita, ma un profondo calcolo di circostanze, perché nulla, nemmeno dopo morto, potesse coglierlo di sorpresa".

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