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Sillabari di Goffredo Parise

Ma i sentimenti allungano o piuttosto accorciano la vita?” si domandò l'uomo e “sentì” che, per quanto ingiusta fosse, la seconda ipotesi era la più reale se non la più probabile.

I sentimenti umani, quelli essenziali e viscerali, vengono snocciolati in ordine alfabetico dalla A (Affetto, Amicizia, Amore) alla S (Sesso, Sogno e Solitudine) in questa splendida raccolta di 54 racconti, o poesie in prosa come li definisce l’autore, che è Sillabari. La prima serie, da Amore a Famiglia, esce sul «Corriere della Sera» fra il 1971 e il 1972 mentre la seconda serie, da Felicità a Solitudine, esce fra il 1973 e il 1980. Nel 1984 i due Sillabari vengono riuniti nell'unico volume che oggi possiamo leggere con continuità. Qui la prosa di Parise è straniante e asciutta, a tratti brusca e scarna, senza però risultare fredda. Descrive con minuzia i profili psicologici dei personaggi, le atmosfere impalpabili che li attraversano, gli stati emotivi che li scuotono, riuscendo a restituirci i sentimenti con una voce affatto sentimentale ma non per questo priva di pathos.


Dice bene Montesano quando individua in quest’opera di Parise “la capacità di dare parole ai trasalimenti privi di parole del corpo”: si tratta di un vero glossario dei sentimenti capace di evocare, come un sillabario, le spoglie di un mondo passato. Parise ci induce a pensare che la vita quotidiana, i piccoli episodi inutili, le emozioni inservibili che proviamo ogni giorno, possano essere raccontabili e racchiudano il segreto della nostra personalità e della nostra vita hic et nunc. Con malinconia spietata, ma sempre con grazia e dolcezza, Parise scrive della vita che è fuggita, del momento irripetibile che non tornerà, di quando ha colto una smorfia passare su un volto, oppure l’accenno di un sorriso, o una voglia o paura non detta, non espressa ma catturata grazie alla propria sensibilità. Leggendo i Sillabari si è portati a credere che la nostra esistenza non sia alla fine così inutile se c’è qualcuno capace di tratteggiare con tale maestria e arguzia i moti emotivi che viviamo e le contraddizioni che ci contraddistinguono. Notava anche Natalia Ginzburg come leggendo I Sillabari ognuno sia portato a scrivere la propria autobiografia sentimentale e a identificarsi con la voce lirica di Parise nonostante l’autore non dia alcun giudizio e neghi il proprio coinvolgimento individuale nelle vicende narrate. Come ha scritto Cesare Garboli, definendoli “romanzi virtuali”, nei Sillabari Parise «distilla la pietra filosofale del raccontare. Ma non racconta, fa qualcosa di più. Invoglia a pensare che il mondo sia raccontabile, e che la sua raccontabilità sia una meraviglia da scrutare attraverso un foro minuscolo».


E ancora, concludendo con Nanni Moretti che ha prestato la propria voce nell’audiolibro che dicono essere bellissimo, «Forse la maggiore fonte di ispirazione di Parise è la scoperta di quelle sorprese che possono confermare la forza della vita, un critico direbbe le “epifanie” della vita».


Di seguito un estratto da Gioventù:


“Abitarono tre giorni al Lido, in un vecchio albergo che ora non esiste più e che si chiamava: Regina. Le grandi finestre delle immense stanze erano ombreggiate di glicine e di altri rampicanti, campanule parevano colorare le bianche tende ottocentesche e le lenzuola. Lei era nera, con la pelle scottante e si muoveva sulle lenzuola e nei capelli come sulla neve. L’uomo (a cui la febbre era scesa) la guardava: nera sulle lenzuola, oppure nella vasca da bagno, oppure la seguiva con lo sguardo e con il cannocchiale, nuotare lontano nella calma e fidata acqua lagunare tra minuscoli guizzi, ogni tanto. Lei parlava poco e possedeva un’autonomi animale, lenta e armonica, che la poneva in contatto diretto con le cose essenziali ed elementari della vita. Così il suo modo di camminare, di nuotare, di mangiare, di dormire e di amare e così il suo fiato profumato di sangue. Egli si sentiva escluso da questo contatto, perché era un uomo indiretto ma gli piaceva molto vederlo in lei e per questo l’amava. Passarono gli anni, il giovane uomo e la ragazza di nome Maria scomparvero uno dall'altra, insieme al tempo. Ma un altro giorno l’uomo (che era diventato vecchio) si svegliò, come sempre e come tutti i vecchi molto presto, e aprì la finestra: c’era un grande prato d’erba appena falciata nell'ombra, con dei covoni, in fondo al prato un bosco quasi nero con dentro un fagiano, sopra il bosco un cielo limpido e ventoso di settembre, con aria di mare. In mezzo al cielo viola una stella, che scintillava in modo arabo. L’uomo pensò ai giorni qui descritti, soprattutto alla pelle scottante e all'alito profumato di sangue, e nella sua mente di vecchio formulò la parola gioventù.”

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